Manifesta 7 parte I: Scenarios e Fortezza

Fortezza, Forte asburgico

Come vi avevo promesso sono andata ad ascoltare con mano questa VII edizione della biennale d’arte contemporeanea europea Manifesta. Arte contemporanea sì, ma che da qualche tempo, come i nostri attenti lettori sapranno, strizza l’occhio all’uso del suono legato a quella che un tempo fu arte visiva. Oggi è di tutto e di più, e come è giusto che sia il suono rientra anche in questo campo. Meno giusto è che spesso si creda che il suono si possa aggiungere senza poggiare su conoscenze specifiche, attingendo ad una tecnologia facile da usare e a portata di portafoglio…ma questa è, in parte, un altra storia.

In parte perchè il progetto Scenarios, che occupa fino a novembre la particolare location del Forte Asburgico di Fortezza (Alto Adige) si avvale della collaborazione del sound designer Hannes Hoelzl, e questa scelta denota già  una certa consapevolezza, e una volontà  di “fare le cose per bene” affidandosi ad un esperto di suono.

Ancora in parte, e stavolta nell’altro senso, perchè questa presenza importante non ha a mio avviso segnato una svolta per la progettazione e l’allestimento nel campo dell’arte contemporanea, come poteva invece fare. Lo vedremo a breve, ma posso subito dire che il ruolo del sound designer (o audio designer, come preferisce indicarsi Hoelzl) non emerge dal percorso sonoro di Scenarios, non colpisce come avrebbe potuto, non lega indissolubilmente il suono all’architettura del luogo come invece la descrizione dell’evento promette.

Ma andiamo a incominciare…

In principio fu la crew: il progetto di Scenarios vede la collaborazione di tutte le èquipe curatoriali che si sono alternate nella cura, appunto, della altre sedi di Manifesta. Parliamo del collettivo indiano Raqs Media Collective, del duo Anselm Francke/Hila Peleg e di Adam Budak. Affascinati dal luogo, i curatori hanno scelto di farlo rivivere solo attraverso il suono, e la troviamo una scelta impegnativa e coraggiosa. Perchè la fortezza è grande, e vuota. Di pietra, se ne sta lì muta e farla risuonare non è impresa facile.

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Quindi, dieci scrittori sono stati invitati a riflettere sulla Fortezza e a scrivere un contributo che è stato poi tradotto in inglese, italiano e tedesco. Recitato o meglio interpretato, ogni contributo è stato registrato per fornire il materiale sonoro alle installazioni nella Fortezza. Ecco una prima scelta: il materiale sonoro è costituito solamente dalle registrazioni dei racconti. E quando dico solamente intendo solamente in senso assoluto. O meglio, c’è un altro suono, quello di una pietra che cade, ma di questo parleremo poi.

Quello che mi preme qui sottolineare è il fatto che non ci sia stato nessun lavoro sul materiale sonoro. Le voci sono presentate nude e crude: non un riverbero, dico, un piccolo filtraggio, un delay magari, insomma, qualcosa che giustificasse l’intervento di un sound designer al di là  dell’editing. Rispetto la scelta di non aver voluto inserire altri suoni – per esempio ambientali, o gestuali, o perchè no qualche bella tessitura, un pedale magari storicamente “indicizzato” per meglio far risaltare il significato della Fortezza…ma queste, ripeto, sono scelte curatoriali e vanno rispettate. Tuttavia, un po’ di coraggio sonoro in più si poteva avere. Il risultato, dal punto di vista del sound design – quello di cui qui ci occupiamo – risulta un po’ povero, e un po’ deludente.

Non me ne vogliano però gli organizzatori se finora non ho parlato dell’aspetto più importante, e interessante, dell’allestimento. Oltre ad Hannes Hoelzl hanno fatto parte del gruppo anche l’architetto Philippe Rahm che ha curato l’allestimento luminoso e il light design, e il designer e arredatore Martino Gamper. Quest’ultima presenza ci interessa molto.

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Come in nostri lettori sanno, ci occupiamo da un po’ di tempo dell’interessante e promettente commistione e collaborazione tra sound design e design, tra designer e sound designer, tra suono e oggetto. E dunque, come vedete dalle fotografie, ogni postazione è stato il frutto di questa interessante commistione tra suono e oggetti d’uso quotidiano, con diffusori e player inseriti in sedie e oggetti d’arredamento.

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Pezzo forte, il divertente telefono che si usava da bambini, con il filo che si fa conduttore del suono, in modo che ognuno possa ascoltare il racconto nella sua lingua, “appoggiandosi” al filo.

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Se tutto questo è sicuramente indice di un’attenzione al legame tra suono e oggetto, tuttavia non toglie quella sensazione che il concentrarsi sul suono sia solo di facciata…ed ecco che ad esempio i diffusori collocati nelle feritoie della Fortezza saturano spesso e volentieri, oltre a dare – causa il luogo in cui sono collocati – un effetto collo di bottiglia che sulla voce da sola fa un po’ lavandino…

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oppure il suono della pietra che cade: proviene da un megafono stile vintage collocato su una finestra che domina la complessa architettura Ma proprio per la complessità  e la sovrapposizione dei muri, il suono si riflette, anzi va a sbattere sui muri esterni della Fortezza e cade, nel senso letterale della parola, si schianta a terra e finisce lì…

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Insomma, non sappiamo quanto stretta sia stata la collaborazione tra il sound design, il designer e l’architetto coinvolti. Di sicuro, come quasi sempre accade, ha risentito della complessità  del progetto e della cronica mancanza di tempo. Sappiamo però che i mezzi economici non sono mancati, e quindi uno sforzo in più, e un’attenzione maggiore al protagonista del lavoro, il suono, si poteva dare.

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Quello che è mancato soprattutto è la continuità , il senso di un percorso che – al di là  dei testi, numerosi, in diverse lingue, quindi già  di per sè difficili da seguire, e ancor più all’interno di un edificio enorme e frammentato – poteva e doveva essere comunicato attraverso l’utilizzo delle sonorità  – del suono – nello spazio.

Ah dimenticavo! Una parte della Fortezza è stata riservata ad una serie di proiezioni di film muti, alcuni molto belli – segnalo Respite di Harun Farocki, del 2007 e Bouquet di Karo Goldt, del 2006. Però faccio anche notare: ci deve proprio essere sempre l’immagine? Abbiamo così paura che il suono da solo (ma anche il luogo, l’architettura, lo spazio) non sia sufficiente?

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Sara Lenzi
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7 COMMENTS

  1. Sono stata a Fortezza qualche settimana fa, incuriosita dalla scelta curatoriale, di cui avevo capito ben poco se non dopo aver comprato il catalogo di Manifesta, e dal promettente fascino della location.
    Ecco, pur non esperta di sound design, concordo prefettemente con le tue osservazioni e i tuoi dubbi. Un suono protagonista ma, per così dire, sommesso e poco coraggioso.
    Detto questo, credo che Fortezza rappresenti in ogni caso un’interessante scelta curatoriale, che potrebbe aprire stimolanti prospettive future. Certo, si poteva fare molto di più. Il passaggio dal testo scritto al testo orale, idea ricca di potenzialità , poteva essere gestito in modo più fecondo. Stessa cosa per quanto riguarda la connessione tra immagine e suono. Ho trovato assai discutibile dedicare delle sale separate per una visione tra l’altro molto tradizionale, frontale e immobile, dei video proposti, quasi fosse una giustapposizione rispetto al resto.
    Di fondo si potrebbe dire che è mancato un vero e proprio dialogo tra le arti, che sembravano aggirarsi come fantasmi solitari tra stanze e corridoi abbandonati. Ma anche l’assenza e il vuoto possono essere carichi di senso e Fortezza, per questo, vale il viaggio.

  2. Essendo un sito di sound design giustamente apprezzate l’idea stessa di un’installazione esclusivamente audio, ma sul giudizio finale siete anche troppo buoni. Il sound design inesistente ha fatto in modo che le piatte voci degli autori che recitavano i lunghi brani risultassero una sorta di “teatro cieco”. Era come vedere una commedia con un telo nero che copre la scena. Ho passato diverso tempo nella bellissima fortezza, ma non ho visto nessuno, ripeto nessuno, ascoltare veramente i brani (tra l’altro molto discontinui, ho colto brani di un saggetto storico sulla costruzione della fortezza, alcuni dati sull’immigrazione…). Piattezza e insignificanza sono i termini che più mi vengono in mente. Un’installazione sciatta anche dal punto di vista tecnico: il meccanismo a filo andato, i lettori mp3 scarichi, gli altoparlanti gracchianti. Il luogo meritava di meglio. Di molto meglio.

  3. Ci sono almeno due aspetti che sia voi che io abbiamo colto: il poco slancio e la poca attenzione nel puntare davvero sul suono, in uno spazio che lo consentiva in maniera quasi sconfinata; e la necessità compulsiva di non mollare il legame con il visivo: con i video muti come ricorda Giulia, andando a cadere (non volendo) su una sorta di “teatro cieco” come sottolinea Alfonso. Nel senso che, ancora una volta e sprecando ancora un’occasione, non si è considerato davvero il suono come catalizzatore di un allestimento. E questo porta a sottovalutare alcuni aspetti che chi si occupa di installazioni e allestimenti sonori per spazi frequentati dal pubblico conosce bene: che il pubblico si ferma malvolentieri nello stesso luogo per più di pochi secondi, che la voce da sola non basta e si perde nello spazio vasto delle architetture (quindi un po’ di sound design è d’obbligo), che anche la voce e il testo vanno contestualizzati sonoricamente perché l’attenzione uditiva è mutevole. Che gli strumenti sono inseriti in un contesto e in quel contesto pianificati onde evitare spiacevoli difetti tecnici (vedi il megafono, vedi i diffusori a contatto). Sì, abbiamo apprezzato la proposta, soprattutto perché proveniente dal mondo dell’arte visiva. E sì, si poteva fare molto di più e meglio…

  4. E vero. Molti “artisti” usano i suoni come utilizzano il “segno”: non molto bene e, spesso, in modo maldestro. Buttano la un po’ d’effetto e battono le mani. Cercheremo di migliorare, bisognerà migliorare. Nel frattempo ci si prepara per la Biennale Musica di Venezia. Nella speranza che le nuove sonorità riescano a scalzare le vecchie. Per il momento sono insuperate: gran parte della musica elettronica di oggi è un unico lungo rumore di fondo.

  5. Non mi sembra di aver letto commenti a proposito del lavoro (SWARM) di Timo Kahlen, opera che giudico di notevole intensità e appropriatezza al luogo.
    Riguardo la sonorizzazione di Fortezza, seppur non perfetta, penso che sia azzecata come scelta estetica.
    Un luogo come Fortezza difficilmente permette ad intrusi artistici o letterari di farla da padroni, è dunque un segno di onestà intellettuale piegarsi alla forza, permettetemi il gioco di parole, di Fortezza.
    Mettere l’accento sulla caratteristica della struttura di essere fredda, di pietra e vuota vuol dire capire il luogo e per questo non invaderlo. Dunque la scelta curatoriale e la realizzazione a mio parere funzionano, poi se non tutti si soffermano ad ascoltare perchè non ci sono lucine colorate non mi sembra un problema.

  6. Ciao Marco, in effetti non ho parlato del lavoro di Kahlen. Quando sono uscita dalla Fortezza canicola e confusione di pubblico erano tali che non mi sono fermata ad apprezzare l’opera – che si trovava all’esterno, nel cortile.
    Per quel che riguarda la sonorizzazione, quello che io e altri abbiamo criticato su quest pagine è stata proprio la scelta del materiale: il testo, si sa, la voce umana, sono portatori di una significato e di una emotività particolari. Ci riconosciamo in essi, riconosciamo il suono della nostra specie, sappiamo che quello che dicono ha un significato preciso anche se detto in un’altra lingua. Cerchiamo la traduzione, vogliamo sapere cosa ci vogliono comunicare, quelle voci.
    E’ stato pretendere troppo, voler sonorizzare un luogo così “grande” fisicamente e psicologicamente, con voci piatte di racconti, come sottolineava Marco Busatto. Sarebbe stato di gran lunga più suggestivo lasciare alcune zone vuote, magari con un suono imprcettibile che si sarebbe alimentato del riverbero, della voce della fortezza.
    E poi magari altre sale di grande impatto, giocando sul pieno e sul vuoto, sui suoni interni ed esterni, dell’ambiente che circonda la fortezza…insomma, tante cose, tante piccole e grandi relazioni. I testi raccontati potevano essere collocati ovunque, non hanno instaurato alcuna relazione con il luogo, proprio perché erano già testo, logos a sè bastante. I suoni sì, avrebbero potuto creare una relazione. Ma sonorizzare un luogo così ricco di emozioni significa portare avanti un lavoro serio e faticoso di ricerca e non, come ha detto benissimo Marco Busatto, “buttar lì un effetto e battere le mani”.

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